giovedì 11 febbraio 2016

Galactic Bus Dossier



Sottotitolo: Vicissitudini, litigi e ordinaria amministrazione in una classica serata trascorsa su un bus di periferia.

Ore 20:11. Il suo sguardo s’allunga verso la profondità della strada, in attesa di quell’enorme scatolone con le ruote. E con quell’insegna luminosa in alto. Che detta senza alcun fraintendimento. Linea 803. Uno tra i traghettatori di tutte le anime che rimangono impassibili davanti ai suoi occhi e dietro le spalle. Solo alcune di esse avrebbero fatto il loro trionfale ingresso all’interno del prossimo bus. O forse tutte. O forse nessuno. Chi può saperlo? Il suo sguardo s’allunga ancora verso la profondità della strada. Nessuna insegna.

Ore 20:17. La sua occhiata stavolta centra in pieno l’imminente arrivo dello scatolone. L’insegna luminosa detta. Linea 80 e qualcosa. L’ultimo numero è qualcosa che ricorda vagamente un 3. Ma in realtà sembra un 8. Forse il dilatarsi oltremodo di quell’attesa ha ingannato i suoi sensi. Forse non è neanche un 80 e qualcosa. Forse quel primo 8 è un 3. L’insegna diventa sempre più grande. 808. Le anime rumoreggiano, in un brusio sottile e iracondo allo stesso tempo. “Quando arriva l’803?”. “Ma dove sta, in America?”. Anime agitate, in perenne attesa e speranza. lui, rimugina in silenzio, mentre le sue cuffie lasciano esplodere “Around The World” dei Red Hot Chili Peppers. “In giro per il mondo”? Non quello su cui posava attualmente i suoi piedi. In attesa dell’insegna.

Ore 20:24. 803. Il numero magico. L’attesa è finita, andate in pace. Anzi, no. La pace è appena finita. Le anime si accalcano ai nastri di partenza per invadere lo scatolone e lasciar sprofondare i loro culi stanchi, ma non tutti realmente bisognosi di conforto, sul primo pezzo di plastica disponibile. Il bus si ferma, la frenata equivale allo sparo prima dello scatto di un centometrista. Le anime partono ai nastri di partenza. Si fiondano su ogni forma geometrica vagamente somigliante ad una sedia. Lui non fa una piega, entrando nello scatolone mentre gli altri duellano per un posto. Pensa buffamente che qualcuno potrebbe fare loro uno scherzo: inserire una sedia di cartone di colore arancione; la loro sete di posto li porterebbe a fiondarsi anche su un miraggio come quello. Le sue cuffie lasciano esplodere “Apres la pluie” di René Aubry.

Ore 20:32. Le finestre semichiuse lasciano entrare sospiri gelidi, che mai però riuscirebbero a raffreddare gli animi surriscaldati che ruggiscono in quello scatolone. Lo schermo posto in alto, nei pressi dell’abitacolo del conducente, segnava l’orario. Le prossime fermate. I messaggi pubblicitari. Quello schermo, tecnologia. Tutto intorno, il degrado. Imbottiture di sediolini diveltate, ragazzocci urlanti, mendicanti stranieri dall’olezzo insopportabile. E al centro lui, in piè, mentre le sue cuffie lasciano esplodere “Disorder”, dei Joy Division. Mai canzone più azzeccata, pensa lui. Fino a quel momento.

Ore 20:38. I ragazzini continuano a scalmanare. Lui sente solo urla indistinte, la musica lo isola da quei fastidiosi schiamazzi. Uno dei presenti si ribella. Agita il braccio contro quei mocciosetti come se stesse brandendo un randello. Forse, la violenza dei colpi di quel signore iracondo avrà la stessa efficacia di un randello. Avvolto dalla musica, lui intuisce che tra quei bambini irritanti e quell’uomo spazientito sta per scatenarsi un big bang. Uno scontro che avrebbe fatto vomitare, da quel malandato bus, la residua aria gelida che s’insinuava tra i finestrini e il fetore languido, ma irritante, rilasciato dai pendolari. Lui è convinto che tutti assisteranno allo spettacolo senza battere ciglio. Come ad un incontro di Wrestling alla TV. E lui è convinto che egli stesso, non avrebbe fatto nulla, defilandosi da quel ring e intrufolandosi nell’indifferenza più totale. Dalle sue cuffie esplode l’intro delirante di “Gypsy Escape” degli Arthur Brown’s Kingdom Come. Fuga gitana, come quella che tutti i presenti avrebbero messo, a breve, in atto.

Ore 20:39. Le urla lancinanti dei contendenti sovrastano il suono delle cuffie. Gli assoli frenetici della tastiera vengono eclissati dagli ululati prodotti da quelle fauci pregne d’odio, di indifferenza, di sconosciuto e ingiustificato rancore. Qualcuno prova a dividerli. Qualcuno ci riesce. Ma la paura e l’omertà, rimane. Quella non la scaccia via nessuno. Tutti se ne lavano le mani. Qualcuno prova a calmare quel signore iracondo, facendogli chissà che discorsetto moralista patetico. Lui, nel frattempo, vive ancora con gli Arthur Brown’s Kingdom Come nelle orecchie. Con una maschera di noncuranza fuori, un tumulto d’agitazione dentro. Mai canzone più azzeccata, pensa lui. Più di quella di prima.

Ore 20:43. La sua fermata d’arrivo si sta avvicinando. Presto sarà liberato da quella prigione d’alluminio, tubi, ferraglia e carburante. Presto potrà svestirsi di quella maschera stoica, fuggendo da quella folla malsana che lo attornia. I contendenti di quell’accesa lotta sono stati distanziati di una manciata di metri. I ragazzini inchiodano il loro sguardo verso il basso. L’uomo invece incolla il proprio su di loro come ad attendere la loro ennesima marachella. Lui continua a farsi sommergere dalle note frenetiche di “Gypsy Escape”. E nel frattempo, continua a posare freneticamente i suoi occhi sull’orario.

Ore 20:45. Uno dei ragazzini solleva il capo, alzando la china in modo istantaneo, brusco, violento. Tutti i passeggeri girano i propri occhi su quella sagoma inquieta, all’unisono, attirati da quel gesto pregno d’inquietudine. Lo scapestrato si dirige verso il conducente, a passo svelto, frugando qualcosa nella tasca destra. Una lama. Il colpo è immediato, nessuno riesce a contrastarlo. Coltellata diretta al braccio destro del conducente. Due. Tre. Quattro. Velocissime. Qualcuno prova ad avvicinarsi e a fermarlo, ma il ragazzino omicida ha già aperto la porta dell’abitacolo, rifilando altre due pugnalate all’autista. Qualcuno riesce ad avvicinarsi, ma l’impeto di coraggio viene smorzato da una fredda minaccia. “Fermo o t’ammazzo anche io, e vi schiantate tutti contro un muro!”. Lui è riuscito a scandire le lettere di quell’avvertimento anche con le cuffie che esplodevano. Ma pensa che è arrivato il momento di zittirle, per un momento.

Ore 20:48. Nessuno prova ad avvicinarsi al baby-autista/baby-killer/baby-gangster/baby-esaltato/baby-qualsiasialtracosa. Quel baby-incosciente dà sempre più gas, direzionando lo scatolone senza meta. Senza destinazione. Pronto a schiantarsi contro una parete. Contro un palo. Contro un’altra automobile. Qualcuno prova a sfoderare i propri cellulari, dalle borse, dalle tasche, per chiedere aiuto. Per filmare l’accaduto, come se fosse una scena del cazzo di un film del cazzo di Hollywood. Lui immagina d’intervenire. Magari di diventare l’eroe della situazione. Di riuscire con una manovra degna di un bodyguard a silurarlo fuori da quell’abitacolo, quel baby-folle. E nel frattempo, tutti sembrano essersi dimenticati del vero autista. Accoltellato. Giacente a terra. Privo di sensi. Sdraiato su una pozza di sangue, con gli occhi schiusi verso le lamiere che gli occultano il cielo.

Ore sconosciute. Lui immagina di salvare tutti. Ma non riesce neanche a proferir parola. Non riesce neanche ad esprimere col verbo tal terrore. La sua faccia, spoglia di quella maschera d’indifferenza indossata prima, lascia però trasparire ciò che alcuna parola riuscirebbe a decifrare. Qualcuno riesce a fare ciò che aveva immaginato lui. L’eroe improvvisato. Anzi, l’eroina improvvisata, una donna sulla trentina. Approfitta di un momento di distrazione del baby-conducente. Apre la porta mezza aperta dell’abitacolo. Rifila un violento calcio al braccio destro del baby-contuso. Lo stesso braccio che ha retto, per tutto il tempo, quel pugnale a sorpresa. Un forte gancio destro per stenderlo, e una brusca frenata per inchiodare al suolo quello scatolone fuori controllo. L’eroina è arrivata. Lui, è salvo. Senza aver fatto nulla. Come salvato dal caso. Tutti escono dal bus, liberi dai morsi della paura. Il conducente ferito viene soccorso. Il baby-steso, chi lo sa. Lui non si crea il problema d’interessarsi. Vede giungere un altro scatolone in distanza, dal lato opposto del marciapiede. Linea 803. Lo riporterà a casa.

Ore 21:20. Uno sguardo all’orologio che ticchetta dentro le mura amiche. I vestiti sudici posizionati sulla lavatrice. Doccia. Cena che lo aspetta dopo quel bagno purificatore. Che non lo pulirà dalle scorie sporche della sua coscienza. Non ho fatto niente, pensa. Non ho mosso un dito, rimugina. Sono ancora vivo, suppone. Ma realmente vivo? Questiona.
La cena è pronta. In TV proiettano le immagini del bus maledetto. Il baby è stato arrestato. A lui gli viene domandato:
“Oddio, hai visto che è successo? Ma non è la linea che prendi tu?”.
La risposta:
“Sì, ma non ne sapevo nulla. Credo di aver preso il bus successivo”.



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Galactic Bus Dossier di Giuseppe Senese è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Based on a work at http://dogmaxpeppe.blogspot.it/2016/02/galactic-bus-dossier.html.

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